Gli Yogasutra di Patanjali: una breve introduzione
Sebbene le narrazioni e gli strumenti delle varie culture prese a riferimento possano essere le più diverse, la natura umana – all’occhio di chi è in grado di penetrare la cortina delle differenti manifestazioni – in essenza resta la stessa. Vediamo quindi cosa può insegnarci la riflessione della via classica dello Yoga a partire dal suo testo cardine: gli Yogasutra di Patanjali. Un primo riferimento a questo importante testo l’abbiamo visto qui; in questo breve approfondimento introdurremo la struttura nella quale si inserisce la riflessione del grande sapiente dell’antichità indiana. Come già articolato la datazione è incerta, verranno perciò forniti solo generici riferimenti (per approfondimenti vedi qui e qui. Il primo di taglio accademico, il secondo dalla viva voce di un maestro – guru – indiano).
Fondamentalmente del grande rishi (saggio, sapiente), filosofo e yogi Patanjali non si sa molto, se non che sia vissuto e abbia scritto la sua opera in un periodo compreso tra il secondo secolo AC e, molto più probabilmente, il 500 DC, alla luce delle ormai accademicamente convalidate influenze delle scuole buddhiste del periodo, in particolare la Madhyamaka (“Via di Mezzo”) di Nagarjuna (150-250DC). La finestra di datazione è tutt’ora fonte di discussione e non vi è accordo tra le proposte dei filologi e delle scuole tradizionali, che naturalmente puntano a datazioni più antiche per il supposto prestigio della cosa (nel più puro spirito dello Yoga, potremmo sornionamente ironizzare).
Entrando un un po’ nel merito dell’opera di Patanjali, si tratta di una raccolta di 196 aforismi o versi (sutra, il cui significato è anche quello di “filo”, a sottolineare la stretta interconnessione logica tra un verso e l’altro), divisi in quattro capitoli, nei quali il grande saggio dell’antichità ha sistematizzato un variopinto corpus di conoscenze, fino ad allora trasmesso solo in forma orale e per via iniziatica. La funzione dei sutra – di per sé ermetici – è quella di fungere da “promemoria” al praticante iniziato da un maestro in grado di illustrare il significato specifico e operativo di ogni verso. A tal riguardo va da sé come anche l’opera di Patanjali sia soggetta a discrete differenze interpretative in base alle scuole e ai lignaggi che l’hanno trasmessa. In generale vengono distinte due categorie di interpretazioni e commentari: quella dei testi classici antichi – di cui un esempio è il Rajamartanda del del Re Boja (XI sec) – e quelli dei maestri più o meno contemporanei dei vari lignaggi attualmente esistenti. Ogni maestro tradizionale (guru), a sua volta, in genere introduce tematiche e riflessioni sempre nuove, tutte basate sull’analisi della natura umana e sulla sua esperienza lungo il percorso dello Yoga.
Quattro capitoli per la libertà
Gli Yogasutra di Patanjali sono divisi in quattro capitoli:
Samadhi Pada: in questo capitolo viene definito cos’è lo Yoga; vengono delineate le basi delle pratiche per ricongiungersi con l’Assoluto, per ottenere il Samadhi, l’enstasi mistica veicolo della liberazione (Moksha).
Sadhana Pada: qui si inizia a parlare del percorso dello Yoga e delle strategie per attuarlo (Sadhana). E’ questo il capitolo dove vengono descritte le ragioni della sofferenza umana (Klesha, qui) e definito il percorso ad otto membra (Asthanga – che nulla ha a che vedere col celebre Vinyasa di Pattabhi Jois che ne ha preso il nome!) fino al “ritiro” dei sensi (Pratyahara).
Vibhuti Pada: si prosegue fino all’ultimo degli otto passi (Samadhi, già definito nel primo capitolo) e viene descritta la mente e i relativi poteri (Siddhi) sviluppabili con la pratica. E’ un capitolo molto particolare, si parla di trasmissione e controllo del pensiero, controllo della materia ecc. Temi da parapsicologia insomma (se ti interessa approfondire questo controverso tema, puoi leggere questo saggio qui).
Kavalya Pada: vengono affrontati tutti i temi più alti, dai metodi per acquisire le Siddhi fino a sottili descrizioni della mente e della realtà fenomenica secondo il sistema di pensiero proposto da Patanjali.
Qual’è lo Yoga di cui parla Patanjali?
Lo Yoga di cui parla Patanjali è il Raja Yoga (letteralmente: “Yoga Reale”), ovvero lo Yoga meditativo, mentale, con forti connotazioni psicologiche. Il termine sanscrito Yoga darshan, liberamente traducibile come “visione dello Yoga”, ma dai significati in realtà molto più estesi, definisce il percorso, la via, delineata da Patanjali ai fini della ricerca spirituale. E beninteso: non è tutto lo Yoga. Non è l’unica forma di Yoga. Avremo modo di parlare ampiamente di ciò più avanti.

Yama e Niyama
Si tratta dei primi due punti dello “yoga delle otto membra” (astha: “otto”, angani: “membra”, comunemente – ma meno correttamente – tradotto anche come “otto passi/gradini” a sottolineare il principio della progressività) che viene introdotto da Patanjali nel capitolo secondo del suo Yogasutra. Queste le otto membra:
Yama: restrizioni
Niyama: osservanze
Asana: posizione del corpo*
Pranayama: controllo del respiro
Pratyahara: ritiro dei sensi (emancipazione dei sensi dai loro oggetti)
Dharan: concentrazione
Dhyan: stato meditativo
Samadhi: assorbimento totale, dissoluzione della dualità
A suo tempo verranno approfonditi adeguatamente; per ora concentriamoci su Yama e Niyama.
* L’espressione è riferita esplicitamente alla posizione meditativa. E’ solo con un utilizzo estensivo – formalmente non corretto nel contesto degli Yogasutra – che la parola viene oggi usata per riferirsi alle forme dell’Hatha-Yoga così come conosciuto e praticato oggi. Essendo un testo “vivo” si tratta di una concessione che in genere viene fatta a scapito della correttezza della lettura originale.
Yama e Niyama possono essere considerati come i pilastri portanti di tutto il percorso, sorta di “purificazione”, nel rapporto con sé stessi e col mondo, ai fini di iniziare una efficace pratica dello Yoga. Questi sono:
Yama (restrizioni)
Ahimsa: non violenza
Satya: verità
Asteya: non rubare
Brahmacharya: castità
Aparigraha: non essere bramosi, non accumulare
Niyama (osservanze)
Saucha: pulizia
Santosha: accontentarsi
Tapas: austerità, sviluppo del “calore”
Swadijaya: studio di sé e dei testi sacri
Ishwara Pranidhana: abbandono a Ishwara
Gli Yama concernono il rapporto con l’Altro e col mondo, mentre i Niyama il rapporto con sé stessi. Generalmente vengono intesi come “norme pratiche ed etiche”, ma il riferimento di Patanjali è in realtà molto più vasto; il grande saggio descrive un percorso di purificazione da tutte le istanze che generano tensione tra noi e il mondo. Osservarsi con consapevolezza, allentare le varie tensioni psichiche e alla fine, abbandonarsi nell’Assoluto bramato. Nei prossimi articoli li approfondiremo uno ad uno articolandone gli spunti utili al nostro vivere e le inevitabili criticità.
Per approfondimenti accademici – impegnativi – si segnala questa interessantissima pubblicazione, qui in open source: