La mente non è un accessorio facoltativo
Dopo aver introdotto tre importanti ostacoli alla pratica dello Yoga (link qui), dedichiamo una panoramica alla corretta – leggasi più proficua – attitudine da portare sul tappetino. Già, perché come abbiamo visto, nello Yoga la mente non è un accessorio né qualcosa che magicamente evolve se impariamo a metterci le gambe dietro la testa.
Iniziamo con il far contenti i super ortodossi: ok, lo Yoga è una pratica per raggiungere l’illuminazione, per sperimentare il contatto diretto con l’Assoluto, con l’Uno. Non è una forma di psicoterapia, non è un esercizio finalizzato al wellness, la pratica di asana (le posizioni del corpo) serve solo a preparare le più avanzate forme di meditazione. Tutto verissimo. Ma concentriamoci per un attimo su ciò che può offrire alle moltitudini di praticanti contemporanei non necessariamente interessati all’illuminazione o agli aspetti più metafisici del percorso. Insomma, proviamo a dare a tutti la possibilità di avvicinarsi allo Yoga e trarre reale beneficio da questa speciale disciplina. Poi ciascuno troverà la sua strada, nel suo proprio tempo e modo. Vediamo quindi di comprendere come questa antichissima disciplina – se correttamente impostata – possa fare ben più che regalarci qualche momento di relax o “high” post pratica o l’abilità di effettuare più o meno divertenti acrobazie col corpo.
Lo Yoga come addestramento interiore
Praticare Yoga non è infatti solo un esercizio fisico, bensì e soprattutto un vero e proprio addestramento interiore. Ciascuno di noi vive la propria vita spesso seguendo degli script e dei pattern (leggi “copioni” e “schemi d’azione”) che si manifestano nel modo in cui ci poniamo nel mondo e che spesso ci guidano, automaticamente e in maniere sottili, nel nostro vivere quotidiano: in questo senso la pratica dello Yoga non fa eccezione. Se ad esempio siamo orientati dal bisogno di apparire o di competere (solo per citare due tra i più diffusi e pressanti bisogni della nostra cultura), ritroveremo queste vere e proprie tensioni interiori anche sul tappetino; col tempo potremo pure sviluppare una pratica fisica eccezionale e un “atteggiamento spirituale”… ma tutto ciò ci sarà davvero servito a vivere meglio con noi stessi e col prossimo? Sinceramente, non di facciata o nella propria narrativa interiore (come “ce la raccontiamo” superficialmente). Forse per un po’, almeno finché il gioco dell’ego regge. Ma era quello che cercavamo? E’ quello che ci serve veramente? Che ci farà vivere meglio con noi stessi e col prossimo? Perché questo è alla fine ciò che ci interessa.

Staccare la spina e osservare senza giudizio
Per evitare di intraprendere una poco proficua strada, è quindi bene iniziare ad avere chiaro fin da subito come porsi una volta sul tappetino, o in qualsiasi altro contesto in cui abbiamo deciso di iniziare un percorso spirituale o di ricerca/evoluzione interiore che dir si voglia: staccare la spina e osservare senza giudizio. L’esercizio della consapevolezza non giudicante è infatti il primo e forse più alto ostacolo per il praticante; in questo senso è importante che si abbia tempo di osservare la propria esperienza interiore e, naturalmente, si venga guidati da un buon insegnante in tal senso. Guidati a scoprire – e infine lasciare andare, ma questo è un altro e più impegnativo discorso che elaboreremo più avanti – se stessi e il proprio racconto interiore.
Divenire meno reattivi
All’inizio (un “inizio” che per alcuni può durare anche anni) è già abbastanza difficile sapere dove si hanno i piedi, ma col tempo si inizierà ad essere sempre più facilmente consapevoli dei più piccoli moti interiori (“vritti” nel linguaggio dello Yoga, vedi link qui) e si diverrà sempre meno reattivi agli stessi: sento il bisogno di mostrarmi molto bravo o il bisogno di attirare l’attenzione dell’insegnante (per essere cullati, visti, “contenuti” per usare il linguaggio psicologico, per competere con l’autorità del momento e via di seguito con tutto quello che può accadere nella mente di un membro di un qualsiasi gruppo umano)? Lo riconosco e mi impegno a non agire seguendo l’impulso, ad esempio con qualche manifestazione istrionica, tipo versi eccessivi di fatica, sbadigli rumorosi, fare platealmente quello che si vuole a prescindere dalle istruzioni di chi sta guidando ecc. Per carità: gli esseri umani sono animali sociali e per qualcuno l’affermare al mondo “ci sono!” è un bisogno davvero impellente… ma lo Yoga vuole provare ad offrici la possibilità di andare oltre tutto ciò.
L'accettazione di sé
E se emergono emozioni represse? In proposito ne abbiamo parlato qui. Avendo tempo di risiedere in connessione con se stessi (le pause nello Yoga non hanno la funzione di semplice “recupero” dalla fatica), ci si ferma: se ad esempio si deve piangere, si pianga, entrando in contatto con eventuali emozioni dolorose accumulate nel tempo. Si chiudano gli occhi. Si espanda il respiro con consapevolezza. Si torni al centro. Si accolga l’esperienza che si ha vissuto.
Il principio di accettazione di sé è fondamentale per vedersi realmente: la negazione dovuta a paura o rifiuto delle proprie emozioni distorce la realtà, compresa la chiara visione di sé stessi.
Questa attitudine un po’ alla volta si trasferirà nel quotidiano rendendoci sempre meno reattivi – e più proattivi – agli ostacoli della vita: la rabbia esplosiva e potenzialmente dannosa col capoufficio o chi altri inizierà ad essere veicolata verso ad esempio una più consapevole e misurata assertività, l’irruenza verrà mitigata da una maggiore ponderazione; la smania di apparire ed essere amati da tutti a tutti i costi, che tanto rode e porta stress, tensione e infinito inappagamento, inizierà a trasformarsi in sempre maggiore sincera serenità e solidità interiore. In libertà dai gioghi che noi stessi ci costruiamo intorno: staremo imparando la preziosa arte del “lasciare andare”, dello sgravarci dalle istanze del nostro ego.
Nota su Yoga e seria sofferenza interiore: come più volte espresso, lo Yoga e la meditazione non sostituiscono in alcun modo l’assistenza psicologica che potrebbe essere necessaria per alcune persone che vivono con particolare sofferenza la propria esistenza e che potrebbero avere bisogno di un supporto esterno. Tuttavia ne può essere un interessante complemento. Un tempo, così come oggi in alcune realtà di differente cultura, vi era il Guru a fare le veci dei nostri odierni psicoterapeuti.
Lo spirito del Karma Yoga
Ma come conciliare questa attitudine, apparentemente di rinuncia, con le richieste della nostra ipercompetitiva realtà? La risposta è nello spirito del Karma Yoga. Lo Yoga dell’azione, “del fare”, di cui parleremo approfonditamente più avanti. Il principio è semplice (non facile!): faccio al meglio delle mie possibilità quello che devo fare disimpegnandomi dai frutti delle azioni, ovvero dai carichi di aspettative sui risultati e sulle ricompense. Ciò che si scopre accadere è che coltivando questo spirito si inizierà a vivere i propri impegni più serenamente. Inoltre, con meno ansia e stress da aspettativa e riconoscimento si inizierà a eseguire i propri compiti meglio, a gestire più efficacemente se stessi… e come per “magia”, magari – magari – cominceranno anche ad arrivare più soddisfazioni e riconoscimenti. Talvolta succede proprio così. Tutto questo praticando Yoga? Tutto questo iniziando a coltivare la corretta attitudine sul tappetino. E da lì, nella vita.
Buona pratica!