La pazienza come virtù
Lo disciplina dello Yoga invita a coltivare la pazienza, vera e propria virtù anche secondo i nostri canoni culturali. La stessa parola Yoga (vedi qui) si fa espressione di idee quali l’unione e il legame: tutto ciò che assolve a queste funzioni in qualsiasi forma può essere a ragion veduta definito Yoga, al contrario di ciò che genera conflitto, incomprensione, separazione. In questa cornice la pazienza è una delle virtù più utili e funzionali al contenere queste spinte propulsive disgregatrici.
La pazienza intesa in senso yogico non è l’attesa o l’aspettativa di qualcosa che dovrà arrivare: attesa e aspettativa sono proiezioni in avanti della mente, e non potranno che generare tensione. Irrequietezza, ansia, frustrazione, rabbia, reattività impulsiva sono comuni nelle persone che hanno bisogno di lavorare su questa fondamentale componente di sé. La pazienza, al contrario, in questa cornice esprime la capacità di accogliere ciò che è: il momento presente così com’è.
La virtù dei forti
La pazienza non è da confondere con l’arrendevolezza o la rinuncia; le sue basi si manifestano infatti come espressione di Samarpan, termine sanscrito i cui significati approfondiremo in una prossima serie di articoli; per ora ci basti sapere che il termine è sommariamente tradotto con “arresa”, ovvero il pieno accoglimento del dato di realtà così com’è (il “volere divino” per usare una comune e più suggestiva espressione). Talvolta, nella vita, non si può far altro che accettare lo stato delle cose. O seguirne il flusso, se pensiamo ad esempio a certi periodi di cambiamento profondo che talvolta si manifestano nelle nostre vite a prescindere dalla nostra volontà. E per tutto ciò è richiesta grande forza interiore.
Coltivare la pazienza
La pazienza va coltivata; alcune persone ne nascono dotate, per altre la sua avvertita mancanza è una fonte di problemi e frustrazioni. In tutti i casi – ci insegnano i saggi di ogni tempo e luogo – si può sempre migliorare.
Si pensi alla pratica delle posizioni di equilibrio dello Yoga: si perde l’equilibrio, si fa un respiro, si torna al centro e si riprova. Nel giusto tempo questo approccio inizierà ad essere esteso a tutti gli ambiti della propria vita.
Per comprendere correttamente il senso della virtù della pazienza per lo Yoga – e per il viver meglio più in generale – è utile ragionare su cosa vi sia alla base delle sue difficoltà: ancora una volta torniamo ad un tema cardine, ovvero l’innato bisogno di controllo sulla vita e nella vita in generale (vedi qui) da parte dell’ego. L’ego vuole che le cose vadano in una certa direzione e non in un’altra: vuole ciò che gli piace e rifugge da ciò che non gli aggrada sul momento. Una disposizione temperamentale – cioè innata – all’impulsività può fare il resto: l’individuo sente l’impulso ad agire per riprendere il controllo su ciò che sta accadendo. E ciò, ainoi, non è sempre possibile. Nell’impossibilità dell’azione (o della sua riuscita) sorge senso di frustrazione e agitazione, talvolta rabbia, che altro non è che l’emozione che si manifesta quando si presenta un ostacolo tra noi e i nostri obiettivi, qualunque essi siano: dalla felicità nella vita in senso lato allo sbrogliare i cavi delle cuffiette arrotolati… o allo stare in equilibrio in un asana. Lo Yoga insegna anche all’individuo dal temperamento impulsivo a modulare le sue risposte reattive, a non re-agire appena si presenta l’impulso. Attraverso il monitoraggio del proprio corpo, del proprio respiro e della propria mente. Si apprende a fermarsi. Ponderare l’azione successiva, quindi riprovare… o lasciare andare alla bisogna.
Coltivare la pazienza ha alla base un sottile esercizio di ridimensionamento delle pretese del proprio ego.
Tutto ciò ci rimanda ad una semplice verità: non si può avere sempre il controllo sulla propria vita. Ci si può tuttavia addestrare ad esercitare un’adeguata disciplina su di sé. Il bello è che paradossalmente si avrà un’esperienza interiore di maggior controllo coltivando la calma e la pazienza piuttosto che affannandosi a seguire ogni pulsione reattiva o frustrandosi nella recriminazione di come dovrebbero o sarebbero dovute andare le cose.
Si mediti su: quante futili litigate o peggio ci si sarebbe potuti risparmiare esercitando un po’ di pazienza e comprensione?
Un altro tema fondamentale in relazione allo sviluppo della pazienza, intesa come tolleranza nelle relazioni umane, è infatti la capacità di empatizzare col prossimo: se lo sguardo è costantemente rivolto al proprio ombelico va da sé che l’unica voce imperiosa che si sentirà sarà quella del proprio ego; da qui la via per l’apertura alle incomprensioni e ai conflitti sarà breve. A questo importante tema saranno dedicati futuri approfondimenti.

Dalla pazienza alla gentilezza
Il più bel frutto della pazienza è sicuramente la gentilezza, la cui summa espressione è ciò che potremmo definire grazia, quando la gentilezza viene estesa ad ogni azione del proprio porsi nel mondo. Anch’essa è una virtù da coltivare: non la cordialità di facciata (come quella estrema di alcune culture asiatiche), ma il vero e proprio cuor gentile. Tuttavia, a prescindere dalla propria esperienza interiore, all’inizio anche il solo coltivare un po’ di gentilezza formale è un’utilissima abitudine che aiuta tutti a vivere meglio. Per essere realmente gentili bisogna essere attenti nei confronti del prossimo; ancora una volta è richiesto di uscire dal proprio ombelico.
Attenzione: anche la gentilezza non va confusa con l’arrendevolezza.
Si può essere genuinamente di cuor gentile e fermi/assertivi insieme. La gentilezza che matura dalla pazienza può ad esempio aiutare a far ragionare un interlocutore su un tema che potrebbe generare conflitto; al limite anche accettando la differenza di vedute senza manifestare inutili rancori contrappositivi. Anche questi sono temi che saranno meglio articolati in futuri approfondimenti.
Come coltivare la gentilezza? Anzitutto osservando se nel proprio porsi col prossimo si tende ad essere sbrigativi, insofferenti, disattenti o aggressivi (anche aggressivi-passivi: non rispondere o rispondere laconicamente o con toni insofferenti ecc). Queste attitudini andrebbero rilevate e corrette applicando i loro opposti, nel caso, sforzandosi un po’ all’inizio – tutte le abitudini si rinforzano con la pratica. Quelle cattive così come quelle buone.
La gentilezza, inoltre, tenderà probabilisticamente (vedi qui) a richiamare la gentilezza, aiutando a rompere schemi relazionali disfunzionali.
“ Si ma ci sono realtà, talvolta anche in ambito lavorativo, dove la gentilezza è vista come debolezza e richiama soprusi di ogni sorta…”
La prima vera domanda da porsi ha le sue radici nell’esercizio della consapevolezza: è davvero questo il posto o il gruppo in cui voglio rimanere? Sicuro sicuro che non possa fare nulla per cambiare questo aspetto della mia vita? Tale è la consapevolezza delle proprie risorse e possibilità: la consapevolezza di avere la forza di potere rompere gli schemi, tra cui le certezze e le convinzioni disfunzionali che hanno bloccato la propria esistenza.
“Forse per molti, ma non per me: 60 anni, figli, posto fisso da 40 anni dove mi stresso ogni giorno in un contesto aggressivo e denigratorio…”
La gentilezza e l’assertività – insieme, proprio come la pazienza – sono percepite come forza: forse bisogna curare un po’ il proprio modo di porsi e, se serve, non aver paura di rompere gli schemi nei quali si è finiti intrappolati. Solo per uno spunto: al riguardo esistono una moltitudine di corsi di comunicazione, dalla CNV (Comunicazione Non Violenta, vedi qui) alle varie declinazioni della PNL (Programmazione Neuro Linguistica) o similari.
Non è mai troppo tardi per iniziare un cambiamento!