Attenersi alla Verità
Satyapratisthayam kriyaphalasrayatvam
“Quando si è fermamente stabiliti nella verità, si governa il frutto delle azioni”
Attenersi alla verità. Tale è l’indicazione del sutra 36. Vivere nella verità è difatti condizione essenziale per il progresso del praticante: il falso, “ciò che non è” – contrapposto al “ciò che è” espresso dalla radice sanscrita sat-, richiamo alla Verità Assoluta, l’Essenza – è esattamente ciò che lo yogi o la yogini stanno cercando di trascendere. La grande illusione, il velo di Maya. La menzogna, appunto.
Sebbene una tensione positiva verso la sincerità, il dire la verità, possa sembrare un’attitudine quasi scontata per un qualsiasi praticante seriamente intenzionato a seguire il percorso dello Yoga, il discorso si complica non poco se si iniziano a considerare le implicazioni del dire sempre la verità, senza attenuanti, come si evince dalla lettura del sutra 31: gli Yama e Niyama prescindono dai possibili vincoli di contesto, cultura, luogo e tempo. Si deve perciò affrontare il problema del presentare la verità a fronte delle possibili conseguenze negative, per sé stessi e per il prossimo. In aiuto, a porsi come condizione necessaria, viene lo Yama del sutra precedente, Ahimsa (link qui), la nonviolenza: nessuna parola, gesto o pensiero può riflettere la Verità se non sorge dallo spirito di Ahimsa.
Satya: la verità nell’intenzione, nella parola e nell’azione
Satya va quindi riferito a tutti i livelli del nostro porci nel mondo: in sostanza non vi deve essere né intenzione di arrecare danno né conseguenze negative per alcuno. Ma quale forma – o non forma – dare a questa disposizione alla Verità? Forse Patanjali suggerisce una tensione ideale, una direzione da seguire, un’intenzione da rendere propria ad un livello profondo, ma irrealistica? O forse le conseguenze della verità, se dolorose, avrebbero la funzione di liberare karma? Avidya (link qui) è ancora una volta alla radice di ogni incertezza, insieme alla stessa considerazione fatta per Ahimsa: nel suo scritto Patanjali non si rivolge all’uomo comune, ma al sadhaka, ovvero a chi si è votato al cammino della Liberazione. Le implicazioni, come per Ahimsa, sono molto diverse se si è una persona comune. Ma, esattamente come per Ahimsa, sono moltissimi i frutti che possono essere raccolti da chiunque decida a seguire questa ingiunzione.
La verità può essere sfumata con dolcezza, magari provando a rispondere alla domanda: “come posso comunicare questa cosa senza arrecare sofferenza?” Tale intenzione non implicherà necessariamente che tutto andrà come voluto (dato che ogni individuo ha una sua propria sensibilità che può differire anche molto dalla nostra), ma con ogni probabilità sarà d’aiuto.
Aneddoto: ricordo questo ritiro. Un giovane partecipante aveva deciso di non usare alcun tipo di prodotto deodorante. Facendosi la doccia tutti i giorni, più volte al giorno, per carità. Ma era Estate, caldo pesante, pochi abiti da indossare. Insomma, tempo qualche giorno e si comincia ad osservare un fenomeno imbarazzante: durante le riunioni di gruppo gli altri partecipanti tendevano a stargli lontano… era proprio palese. Purtroppo il giovane emanava il caratteristico cattivo odore a cui noi civilizzati non siamo più abituati. Insomma, vuoi per non offendere, vuoi per imbarazzo, fatto sta che nessuno si era preso la briga di fargli notare la cosa. Meglio starci lontano, no? Per me no. Una mattina, ricordando le vicissitudini patite col bullismo a scuola (stava accadendo un fenomeno simile, anche se in questi casi all’inizio è meno evidente), mi sono avvicinato e gli ho detto, con molta serenità: “guarda, ti suggerisco caldamente di usare un deodorante perché emani forte odore di sudore, probabilmente saranno i vestiti… ma se non vuoi far scappare il tuo prossimo…”. Ricordo ancora oggi la faccia sconcertatissima e le parole del ragazzo: “Grazie. Grazie per avermelo detto. Davvero, provvedo… io non lo sentivo… grazie”. E da lì si ripristinò la normalità.
Se il tuo interlocutore ha uno spinacio tra i denti, la cosa migliore che puoi fare, per cui ti sarà grato, è dirglielo! Qualunque sia il contesto e la persona. Diglielo.
Sembrano sciocchezze dette così, aneddoti un po’ per ridere, ma in realtà stiamo parlando di comportamenti che possono fare la differenza. Per noi e per gli altri. Anche nei contesti più seri.
Una pillola amara può guidare verso il cambiamento necessario o direzionare verso una più proficua via.

Dirsi la verità, tra autoidealizzazione e spietata autocritica
Un’altra sfaccettatura del discorso, assai perniciosa, è quella fondamentale relativa al dirsi la verità. Ciò presenta infatti un duplice problema: da una parte il riuscire a vedere sé stessi e la propria vita oggettivamente, in un’ottica spuria da distorsioni e censure, dall’altra l’evitare di mentire a sé stessi, assecondando fuorvianti autorappresentazioni, risultanti dal proprio tentativo di adattamento psicologico alla realtà. Il primo problema riguarda la capacità, che bisogna sviluppare, di porsi come soggetto osservante e contemporaneamente oggetto osservato; sebbene lo Yoga annunci la possibilità di affrancare un Ente osservatore dalla propria mente e dai propri moti interiori, le difficoltà permangono tutte. Questa abilità si sviluppa con la meditazione o anche le pratiche di Hatha-Yoga, purché eseguite col giusto spirito, ovvero non passando il tempo a guardare i vicini o a guardarsi allo specchio.
L’altro aspetto riguarda la tendenza a velare o distorcere sé stessi. Qui è facile cadere in due errori antipodici: il primo concerne il rischio di vedersi e descriversi alla luce dei propri modelli ideali o ancor più delle proprie aspettative e autorappresentazioni di convenienza. Ad esempio: “nel sentiero spirituale bisogna essere buoni e dispensare amore”, “è bello e giusto essere buoni e dispensare amore”, quindi “io sono buono e dispenso amore”. Per poi magari essere soliti rispondere acidamente non appena ci si sente messi in discussione, o si covano quotidianamente rancori, invidie ecc poi manifestate nelle più subdole maniere (per uno spunto tra tanti, vedi qui).
Per non mentire a sé stessi ci vuole anzitutto coraggio, il coraggio di guardare in faccia la realtà, anche negli aspetti che potrebbero piacere di meno, frustrare e portare ad un iniziale sconforto.
Un secondo punto, più problematico per alcune persone, è quello opposto derivato dalla tendenza ad una spietata autocritica, che può nuovamente offuscare dal vedere le cose come realmente sono; si è così tanto abituati a martoriarsi che si finisce col non riuscire a vedere le proprie qualità “positive”, a perdere la fiducia nel proprio potenziale umano a causa di un’autorappresentazione interiore negativa da correggere in senso più equilibrato e positivo. Anche in questo caso ci vuole forza e stabilità interiore per non mollare tutto distruttivamente alla prima difficoltà.
Ai fini del trovare la Verità in sé stessi, discernimento, misura ed equanimità in ogni valutazione dovrebbero essere le due parole d’ordine.
Verità come coerenza interiore
La verità non è solo collocata nell’intenzione e nella parola, che ne è forse l’espressione più comune e manifesta (tanto da da essere in grado di dare forma alla realtà come ottenimento per i più alti livelli di realizzazione, la siddhi offerta dal rispetto di questa ingiunzione), bensì risiede anche nel gesto: ogni gesto, ogni azione, dovrebbe infatti riflettere il vero, ovvero essere coerente con la propria dimensione interiore.
Da ciò si potrebbe evincere che “siccome sono una persona rancorosa esprimo Satya insultando o menando liberamente chi mi da noia.”
Potrebbe essere questa la corretta interpretazione di questo principio? No. A riportarci sulla retta via interviene ancora una volta Ahimsa. Se scappa la cattiva risposta ci si può scusare sinceramente e spiegare, ad esempio, che si ha risposto male perché si era stanchi o stressati. Essere in grado di scusarsi non è affatto scontato per moltissime persone, soprattutto nella società narcisistica in cui viviamo, dove tutti vogliono avere ragione e sentirsi “migliori” del prossimo. Una volta di più: anche per riconoscere i propri errori e scusarsi ci vuole forza. Scusarsi vuol dire essere in grado di arrendere la propria ragione senza veder incrinata la propria autostima e rappresentazione di sé. Ci vuole vera solidità – leggasi serenità interiore. Che va coltivata. E così per tutte le altre qualità utili che possono venirci in mente, come la pazienza (link qui), la compassione, la serenità interiore che ricerca anzitutto chi sceglie di vivere seguendo percorsi come quello dello Yoga. Per un’interessante eccezione si rimanda aneddoticamente alla vita talvolta molto conflittuale di alcune comunità spirituali dove si seguono principi di vita “tantrici”, nei quali non solo si prende l’impegno di vivere nel Vero, ma anche di esprimere liberamente tutto ciò che si manifesta dentro. Ciò dovrà però avvenire ad una condizione: che subito dopo si lasci andare. Si volti pagina. Si apra subito una nuova pagina bianca. Senza rancori, senza rimurginii, senza ferite da sanare. Tuttavia nel mentre ci si è insultati, quando non peggio. Non è assolutamente per tutti, come non sono per tutti certi particolari orientamenti di cui parleremo più avanti.

La funzione del mentire e del dissimulare
Perché mentire e dissimulare? Due sono i benefici adattivi di questi comportamenti comuni a tutti gli esseri umani: ottenere benefici e mantenere l’armonia (una parvenza di) nelle relazioni sociali, contenendo i conflitti. Se il primo beneficio deve fare i conti con la censura della comune etica e morale, il secondo è già più problematico per la nostra analisi; potrebbe infatti esserci un’etica del mentire (o del non dire che ne è un’altra faccia)? Per molti assolutamente sì, se tale scelta evita inutili sofferenze al prossimo. Sicuramente però non per Patanjali e chi era ed è genuinamente nel suo percorso. Ancora oggi, chi crede alla legge di causa-effetto del karma avrà già la sua chiara risposta: una menzogna o un non detto, prima o poi, in qualche forma, torneranno a chiederci il conto. Tanto vale pagare già ora.
Ma d’altra parte non si dice anche da noi che le bugie hanno le gambe corte?
Prospettive e assunzioni differenti possono portare a conclusioni differenti. Ancora una volta non ci sono risposte facili.
Seguire il cuore
Forse, la soluzione più facile che ci potrebbe liberare dai dubbi cagionati da un eccesso di ragionamento, resta uno dei più bei principi che possiamo trovare nei percorsi spirituali in generale:
Quando sei in dubbio, segui il cuore.
Questo principio resta sempre valido, a patto che si abbia fatto un opportuno lavoro su di sé: non sempre è scontato distinguere la voce del cuore – fatta di compassione e connessione spontanea – con i giochi delle proiezioni, con i giochi dei molti temi irrisolti che i nostri animi si portano dietro. Per aiutarci è sempre utile ricordare quanto segue:
La Verità nel gesto, parola e pensiero, quando viene genuinamente dal cuore, è libera da aspettative, ovvero da attese di ricompense e frustrazioni per i mancati riconoscimenti.
L’intero percorso dello Yoga aiuta a connettersi con questa fondamentale ed evoluta componente di sé, la base per agire, parlare e pensare nella Verità.