Swadhyaya: dai testi sacri allo studio di sé
Svadhyaya-istadevata-samprayogah
“Attraverso lo studio del Sé si stabilisce l’unione con la divinità prescelta”
Letteralmente “lo studio del Sé”. Ma di quale “sé” stiamo parlando? Nella sua etimologia originale, l’espressione di questo critico Niyama va riferita allo studio dei testi sacri (Veda e Upanishad, i commentari derivati) al fine di conoscere l’Atman, il Vero Sé: l’Essenza, la scintilla che nella circostanza della Manifestazione si è separata dalla fiamma originaria, Brahman. Tuttavia, come sempre per lo Yoga, macro- e micro- cosmico hanno la loro naturale corrispondenza; in tal senso Swadhyaya non può che partire dall’analisi e dalla messa in discussione del proprio “piccolo sé”, ovvero la natura di Ahamkara, l’identità egoica che vive nella separazione necessaria e imposta dalla Manifestazione. Tale passaggio è assolutamente necessario e con esso si comprende il senso del percorso di autoconoscenza e “purificazione” fin qui delineato (vedi qui). Al contrario, pensare di arrivare anche solo a intravedere i bagliori della propria natura ultima non può che essere un’ingenua illusione o, in alternativa, una proiezione del proprio ego che brama i consueti vita eterna e potere. Come prima cosa bisogna iniziare a vedere chiaramente le sovrastrutture che generano quel senso di identità, separazione e attaccamenti col quale ci identifichiamo e che chiamiamo “noi stessi”. Poi verrà tutto il resto del percorso.
Dal Guru-Shishya all’analisi contemporanea
Nel passato questa parte fondamentale era affidata al Guru, il Maestro spirituale che stressava e testava in infiniti modi il discepolo attraverso la relazione nota come Guru-Shishya (maestro-discepolo), mettendolo in condizioni di vedere e superare le proprie idiosincrasie, squilibri e fragilità (per un racconto esemplare e di gradevolissima lettura si può leggere l’autobiografia di Yogananda, vedi qui). Oggi, questo delicatissimo compito può essere svolto in molti modi: dall’osservazione attenta e critica di sé stessi – non in senso distruttivo, nello Yoga si apprende a non giudicare e giudicarsi, bensì a comprendersi per sgravarsi quanto più possibile dalle istanze del proprio ego che generano sofferenza e visione errata – tramite ad esempio l’acquisizione di strumenti psicologici, fino al seguire veri e propri percorsi psicoterapeutici laddove necessario, per risanare ferite profonde o altri squilibri interiori che non possono essere rilevati e superati con la sola auto osservazione, come più volte sottolineato durante il percorso.
La chiave è mettersi in discussione. Per iniziare provare a porsi le seguenti domande, solo per uno spunto:
- Nel mio vivere quotidiano sono dominato da rimpianti, ansie, proiezioni?
- Agisco re-attivamente rendendo difficile la mia vita e talvolta quella del mio prossimo?
- Non riesco a capire perché agisco in un certo modo invece che in un altro, magari ripetendo gli stessi errori?
- Sono convinta/o di essere speciale o particolarmente sventurata/o?
- Non riesco proprio a dire “hai ragione” o “grazie” o “scusa ho sbagliato”?
In caso di risposte affermative potrebbe essere seriamente utile iniziare a lavorare su di sé. Si consideri che le domande da porsi sarebbero ovviamente molte – ma molte – di più, e non può bastare certo il presente articolo divulgativo per trattare compiutamente tutti i potenziale nodi della nostra psiche… quindi, proviamo a riassumere con una domanda:
Viviamo francamente male le nostre vite, carichi di rancori, frustrazioni e incomprensioni? Ecco.
Oppure si vive la propria vita in maniera ragionevolmente leggera – che non significa superficiale o esente da emozioni forti! Siamo umani: il punto è la non identificazione con gli stati della propria mente – grati per ciò che di buono la vita ha donato e senza disperarsi per le sventure vere o presunte? Si è costantemente consapevole di non essere il centro del mondo, né il più fortunato o sfortunato del creato? Bene, in questi casi forse si può iniziare a esplorare lo studio del Grande Sé. L’alternativa è quella di mettersi un bel mantello decorato addosso, magari in stoffa indiana… ciò che è stato efficacemente descritto dalla Caplan come “ego spiritualizzato” (qui il testo per approfondire). Per un po’ può anche giovare… come tutte le illusioni, del resto. Ma non porta da nessuna parte e, soprattutto, non aiuta a risolvere i propri nodi interiori. Per vivere realmente meglio.
Swadhyaya come direzione
L’importanza di Swadhyaya nel percorso dello Yoga, superati i nodi del piccolo sé e con l’attenzione ora rivolta al grande Sé, è capitale: ci ricorda l’importanza di tenere lo sguardo rivolto verso l’Alto, verso una “prospettiva cosmica”, similmente a quanto visto con Brahmacharya (vedi qui). Ci rimanda all’impegno di non lasciare che la mente rimanga ammaliata o peggio ammorbata dalle inezie – nella suddetta prospettiva cosmica – del quotidiano, dal gioco (Lila) della Manifestazione. Tutti nasciamo, affrontiamo le sfide della vita, ci ammaliamo e muoriamo in mille modi diversi. Eppure le stelle brillano per tempi immemorabili in galassie inimmaginabilmente lontane, lo stesso spazio e tempo non sono quell’esperienza fissa che ingenuamente il nostro adattamento cognitivo, biologico, ci fa sperimentare e credere… la Manifestazione e la Coscienza di essa – Shakti e Shiva altro non sono che simboli di queste due idee – possono così divenire due strepitose meraviglie dinnanzi alle quali dissolversi. Questo è l’Alto verso cui rivolgere il proprio sguardo. Oltre le nostre piccole vite. Verso il mistero dell’essenza più ultima della Coscienza: il Vero Sé, nel linguaggio dello Yoga. La mente va quindi addestrata a disporsi su siffatti lidi; per alcune persone è più o meno naturale, per altre una sfida di non poco conto… ma tale è la direzione. Anche in questo caso restano validi i consigli degli antichi: leggere i testi dei saggi, dei santi, degli astrofisici o degli studiosi della vita o filosofi della coscienza che siano. Coltivare la meraviglia per la Vita. Mettere in discussione criticamente i propri sensi e la propria esperienza mentale, non smarrircisi dentro. Appassionarsi ai grandi temi dell’Esistenza. Per rilassarsi nel suo fluire, così com’è.
Ostacoli allo studio di sé
Un problema che ben conosce chi si occupa di studio della mente è la facilità con la quale si rischia di finire ossessionati da sé stessi, dalla propria mente e dai suoi giochi; questo è qualcosa che vogliamo assolutamente evitare, dato che non porta da nessuna parte. A ciò si aggiunge il rischio di eccessiva razionalizzazione, una vera e propria “difesa” intrapsichica con la quale tutta l’esperienza viene “filtrata” dalla ragione, che nasconde le emozioni sottostanti… col risultato di rischiare di trovarsi “agiti” da queste emozioni, a dispetto di tutto l’impegno messo per trovare un senso ai contenuti della propria mente. La mente non è lineare, non si muove solo per logica… vi possono essere associazioni, fusioni di simboli e significati (“amalgami”, di cui si dice sia costituita la struttura dei sogni) ecc; talvolta bisogna semplicemente entrare in contatto, accettare e quindi liberare i vissuti emozionali. In questo senso la pratica dello Yoga, nella sua veste contemporanea, può risultare un eccezionale strumento se associato ad esempio ad un percorso psicoterapeutico. Proprio in questa prospettiva si sono sviluppati orientamenti clinici piuttosto celebri come la storica psicoterapia “Bioenergetica” di Alexander Lowen. Anche l’idea di rinunciare al “culto di se stessi”, propria della nostra cultura, può essere un ostacolo allo studio di sé e alla serenità interiore – per non parlare della parte più alta del percorso dello Yoga. Si pensi alla già citata e dirompente tendenza al successo a tutti i costi (vedi qui), all’ansia di essere ricordati come individui “speciali” ecc. fino ad aberrazioni ultra celebrate, soprattutto nel mondo adolescenziale e, ainoi, non solo: si pensi alla criminalità delle mafie contemporanee i cui disvalori sono magistralmente spiegati da Saviano nei sui ormai popolari approfondimenti in tema – ben espresse da filoni cinematografici e musicali del genere “get rich or die trying”. Diventa ricco o muori provandoci. Olè.

Conoscere sé stessi
Conoscere sé stessi vuol dire anzitutto avere la forza e il coraggio di guardare negli occhi le proprie fragilità, i propri traumi, le proprie illusioni e i propri bisogni vitali più profondi. Vuol dire aprirsi alla possibilità di accogliere per lasciare andare le proprie sovrastrutture al fine di potersi espandere e rilassare nell’esperienza più pura e diretta della propria Coscienza. Consapevoli della magnificenza della stessa, se vogliamo: della miracolosa esperienza dell’Essere.
Ps
“Attraverso lo studio del Sé si stabilisce l’unione con la divinità prescelta”
In che senso “con la divinità prescelta”?
Ne parleremo in un successivo approfondimento. Semplificando in breve: il riferimento va al cosiddetto Ishta Devata, o “divinità personale/di meditazione”. In sostanza si tratta di meditare su una delle varie divinità del pantheon indù (o buddhista tibetano per i buddhisti tibetani e così via) con l’idea di identificarsi con la relativa qualità divina che essa esprime. Una vale l’altra, sono tutte espressioni di Brahman: è questione di sensibilità e connessione personale – o, se iniziati da un Guru, si può aver ricevuto un mantra relativo ad una specifica entità simbolica da praticare nella propria sadhana.